La Nanomedicina e la sua Promessa di Rivoluzionare la Terapia Oncologica

Dopo trenta anni di intensa ricerca, la nanomedicina applicata alla terapia oncologica ha mantenuto la sua promessa di rivoluzionare la chemioterapia?

Valentina Colapicchioni, PhD
9 min readSep 2, 2020
Illustrazione: Kieran Blakey

La nanomedicina, che può essere considerata come il matrimonio tra nanotecnologia e medicina, è emersa negli anni '90 e da subito ha suscitato grande interesse tra chimici, fisici, biologici e medici, sia in ambito accademico che industriale, ricevendo centinaia di milioni di dollari di finanziamenti.
Il grande fascino della nanomedicina risiede nella sua promessa di sfruttare le proprietà uniche dei materiali nanostrutturati per risolvere alcune tra le più grande sfide della medicina, sia nella fase diagnostica che terapeutica.

"La nanomedicina ha il potenziale di rivoluzionare la medicina del XXI secolo" — Michelle Pautler e Sara Brenner.

Nano-robots che viaggiano nel circolo sanguigno

Mettiamo subito una cosa in chiaro: la nanomedicina non consiste di nano-robots che viaggiano nel flusso sanguigno come astronavi in ​​miniatura “uccidendo” le cellule malate!
La nanomedicina non è fantascienza, la nanomedicina è "magia".

Sì, "magia"!

Poco più di un secolo fa, Paul Ehrlich ha coniato il termine "proiettili magici" per riferirsi, almeno in teoria, a composti terapeutici progettati per colpire selettivamente le cellule malate senza danneggiare gli altri tessuti.
Con l'avvento della nanotecnologia e della nanomedicina questo sogno ha iniziato a diventare realtà: le nanoparticelle sono diventate i nostri "proiettili magici"!

Perchè “magia”?

I nanomateriali sono "magici" per diversi motivi, ma uno predomina su tutti: le loro dimensioni. Le nanoparticelle, definite come “oggetti” in cui tutte e tre le dimensioni sono inferiori a 100 nm, sono fino a 10.000 volte più piccole della larghezza di un capello umano. Un nanometro è un milionesimo di millimetro, i materiali nanostrutturati sono quindi nella stessa scala dimensionale di proteine, aminoacidi e virus.

Le misure contano. È stato ben dimostrato che le particelle possono acquisire nuove proprietà chimiche e fisiche quando le loro dimensioni sono ridotte alla scala nanometrica.
Grazie alle loro proprietà uniche, le nanoparticelle sono state ampiamente studiate per diverse applicazioni correlate alla nanomedicina: come sistemi per la veicolazione di farmaci/geni (l'alto rapporto superficie / volume dei materiali nanostrutturati ne migliora la capacità di carico), come sonde per la diagnosi (grazie alle proprietà ottiche), come materiali di “riparazione” nella medicina rigenerativa e nell’ingegneria dei tessuti.
Tuttavia, gran parte della ricerca della nanomedicina si è indirizzata al campo oncologico. I ricercatori di tutto il mondo hanno iniziato a sintetizzare e studiare i "proiettili magici" per colpire selettivamente le cellule neoplastiche, facilitando la diagnosi ed il trattamento terapeutico.

Nanomedicina e terapia oncologia

Negli anni '90, lo scopo generale della nanomedicina in campo oncologico, era quello di migliorare le prestazioni della chemioterapia, sia in termini di efficacia che di sicurezza. In particolare, la possibilità di veicolare l’agente chemioterapico in modo specifico rendeva la nanomedicina particolarmente interessante per ridurre gli effetti collaterali sugli organi non-bersaglio, aumentando l'efficacia della terapia.
I materiali nanostrutturati sono stati, e sono tuttora utilizzati, come vettori: l’agente terapeutico può essere incapsulato all’interno della particella oppure legato chimicamente sulla sua superficie.
Tuttavia, le nanoparticelle non si limitano solo a veicolare l’agente terapeutico ma svolgono anche altre funzioni chiave: proteggono il farmaco dalla degradazione nell'ambiente biologico prolungandone la presenza nel sangue ed, infine, “consegnano” l’agente terapeutico alle cellule bersaglio in modo preciso mediante rilascio controllato.

Targeting. Credit: Pexel

Le prime strategie di targeting (ovvero veicolazione mirata) hanno sfruttato le caratteristiche fisiopatologiche dei vasi tumorali. Si è, infatti, osservato che le neo-vascolarizzazioni iper-permeabili unite ad un compromesso drenaggio linfatico favoriscono l'accumulo di nanoparticelle nel tessuto tumorale. Questo fenomeno viene definito effetto EPR ed è sfruttato nelle strategie di targeting passivo.
Il targeting attivo, invece, si ottiene "decorando" la superficie delle nanoparticelle con le cosiddette molecole targeting come ad esempio anticorpi o proteine ​​che permetteranno di legare direttamente le nanoparticelle ai recettori sovraespressi sulla superficie del tumore.

Gli studi condotti nel campo della nanomedicina oncologica hanno portato all'approvazione clinica di alcuni “nano-farmaci” innovativi e continuano a ispirare la ricerca scientifica.

Il primo nano-farmaco che ha ricevuto l'approvazione clinica è stato il Doxil®, nel 1995, è indicato per mieloma, carcinoma mammario ed ovarico.
È una nanopiattaforma liposomiale (i liposomi sono vescicole sferiche formate da doppi strati lipidici) che incapsula il chemioterapico doxorubicina e funziona secondo il principio del targeting passivo.

Da allora, la ricerca in questo settore è stata frenetica e altri 15 nano-farmaci per la terapia oncologica (riportati nella tabella sottostante), sono stati sviluppati, testati ed immessi sul mercato.

Nano-farmaci approvati clinicamente

Non ci sono dubbi sul fatto che alcuni di questi nano-farmaci abbiano riscosso un grande successo commerciale: Doxil® / Caelyx® e Abraxane, ad esempio, sono stati i più venduti nel 2018, con rispettivamente $ 252 milioni e $ 950 milioni.

Tuttavia, alla luce dei risultati clinici e facendo una comparazione con i chemioterapici tradizionali, le nanoparticelle possono ancora essere definite un successo?

La nanomedicina ha mantenuto la sua promessa?

No. Sfortunatamente, la nanomedicina non ha rivoluzionato la chemioterapia, almeno per ora.

Nonostante trenta anni di scoperte entusiasmanti, l’efficacia del trattamento non è aumentata come sperato.
Il Doxil® ha portato ad una riduzione sostanziale degli effetti collaterali e ad un aumento dei livelli di dose tollerati del chemioterapico. È stata, infatti, dimostrata una ridotta cardiotossicità rispetto alla doxorubicina libera.
Lo stesso vale per altri nano-terapeutici, tra cui l’Abraxane® , usato per il carcinoma mammario e pancreatico, in grado di migliorare fortemente la tolleranza al chemioterapico paclitaxel consentendone la somministrazione senza l’impiego di tensioattivi solubilizzanti tossici.
In generale, queste nano-piattaforme hanno portato ad avere tempi di circolazione più lunghi ed effetti collaterali ridotti.

Tuttavia, i nano-farmaci hanno avuto un impatto estremamente moderato sulla sopravvivenza rispetto alle terapie standard pertinenti.

La bassa efficacia è il principale punto debole dell’applicazione clinica dei nano-farmaci.
L’analisi degli studi clinici offre un interessante spunto di riflessione.
Le percentuali di successo delle fasi I, II e III della sperimentazione clinica scendono significativamente dal 94% al 48% fino al 14%.
L’elevato successo della sperimentazione in fase I suggerisce che si ha una buona biocompatibilità dei materiali, mentre il fatto che solo il 14% dei nanofarmaci abbia concluso la fase III con esiti positivi è dovuto alla bassa efficacia.

Il basso tasso di successo degli studi clinici ricorda il divario esistente tra l’elevato numero di articoli pubblicati e gli scarsi risultati clinici. Cercando su PubMed “nanoparticelle per la terapia oncologica” compaiono oltre 40000 articoli ma, come ormai sappiamo, solo 15 nano-farmaci sono state approvati, a livello globale, nella terapia oncologica.

Cosa sta limitando l’applicazione della nanomedicina in campo oncologico?

Prima che la nanotecnologia possa davvero diventare uno strumento prezioso per la medicina rivoluzionando la terapia oncologica, alcune difficoltà devono essere superate.

  1. Scarsa comprensione della biologia del tumore. La complessità, la ridondanza e l’adattabilità degli organismi viventi rappresentano una sfida per la nanomedicina e, più in generale, per tutti i ricercatori clinici.
    Gli organismi viventi possono adattarsi per rispondere alle sfide. Quando i tumori vengono trattati con farmaci antitumorali, emergono cloni di cellule farmaco-resistenti che rendono così il cancro “refrattario” a un’ulteriore terapia.
    Tuttavia, la scarsa comprensione della biologia del tumore è anche strettamente connessa ad una scarsa validità dei modelli preclinici disponibili.
  2. Scarsa validità dei modelli animali. La mancanza di modelli animali in grado di riprodurre tutti gli aspetti del tumore umano, inclusi mutazione, proliferazione e metastasi, è riconosciuta come la princiapale spiegazione per la discrepanza tra l’efficacia terapeutica osservata negli studi preclinici e la mancanza di esiti clinici positivi.
    Inoltre, il fatto che la maggio parte degli studi preclinici vengano condotti su animali immunodeficienti rende difficile prevedere potenziali effetti avversi.
  3. La nanomedicina oncologica è più focalizzata sulle nanoparticelle piuttosto che sulla malattia. È interessante osservare (figura sotto) che cercando “nanoparticelle per il cancro” su Scopus, il 44% degli articoli trovati, sono stati pubblicati su riviste di scienze dei materiali, chimica e ingegneria, mentre solo il 17,3% dei lavori è stato pubblicato su riviste mediche (includendo anche i campi di farmacologia, tossicologia e prodotti farmaceutici).
Aree di ricerca delle riviste scientifiche cercando “nanoparticelle per il cancro” su Scopus.

Molti ricercatori hanno attribuito proprio a questo approccio, troppo focalizzato sulla formulazione (nano-piattaforma), gli scarsi risultati clinici ottenuti.
Analizzando in modo critico la ricerca condotta sino ad ora nell’ambito della nanomedicina, è innegabile che molta attenzione sia stata rivolta alla sintesi, all’incapsulamento dei farmaci e alla caratterizzazione dei nanomateriali. Lo sviluppo di metodi di sintesi sempre più ottimizzati ha permesso di sintetizzare nanoparticelle di forma e dimensioni controllate, sia di natura inorganica (nanoparticelle metalliche, silice, ecc.) sia organica (liposomi, polimeri).

Nanoparticelle d’oro, immagine TEM

Una chiara dimostrazione dell’efficienza raggiunta dai protocolli di sintetisi è fornita dall'immagine TEM (Microspio Trasmissione Elettronica)delle nanoparticelle d'oro sintetizzate dalla dott.ssa Zeljka Krpetic e riportata di lato. Oggi siamo in grado di sintetizzare popolazioni di nanonaparticelle altamente riproducibili sia per forma che per taglia.
Nell'immagine, possiamo distinguere perfettamente nanotubi, nano-prismi e le nano-stelle! — Non dimentichiamoci che tutte queste particelle sono più piccole di 100 nanometri e che un nanometro è un milionesimo di millimetro.

E’, però, altrettanto vero che nell'ultimo decennio è diventato sempre più evidente che l'interazione delle nanoparticelle con i fluidi biologici svolge un ruolo chiave nel determinare il destino e il successo dei nano-farmaci. Pertanto, i protocolli di sintesi sono ora ottimizzati tenendo anche conto delle interazioni tra nanoparticelle e ambiente biologico.

4. Scarsa comprensione delle interazioni tra nanoparticelle e fluidi biologici
Quando le nanoparticelle entrano in contatto con fluidi biologici, perdono immediatamente la loro “identità sintetica” per acquisire una nuova “identità biologica”. La superficie delle nanoparticelle, infatti, è rapidamente coperta da una “corona” di proteine ​​presenti nel mezzo biologico che vanno a modificare dimensioni e carica delle nanostrutture. La cosiddetta “corona proteica” non solo ha un impatto significativo sulle proprietà chimico-fisiche del nano-farmaco ma è anche cruciale nel determinare la risposta del sistema immunitario e il successo del targeting.

È stato, infatti, dimostrato che la formazione della “corona proteica” scherma (ricopre) e rende inefficienti le molecole targeting legate, durante la sintesi, alla superficie delle nanoparticelle con il fine di raggiungere selettivamente le cellule bersaglio.
In aggiunta, anche l’approccio del targeting passivo, basato sull’effetto EPR, ha avuto esito negativo: “L’effetto EPR fallisce quando si passa dal modello animale alla sperimentazione clinica sull’uomo”.

Per queste ragioni, la scarsa comprensione delle interazioni nanopiattaforma-sistema biologico, è stata considerata il principale fattore alla base della modesta applicazione clinica delle nano-medicine.
Tuttavia, l’insuccesso di entrambe le strategie di targeting ha contribuito a cambiare prospettiva, ottimizzando il focus della ricerca.

Dalle ceneri del targeting attivo e passivo sta emergendo una nuova strategia: il targeting mediante corona proteica”.
L’idea è quella di sfruttare le proteine ​​che formano la corona come un “elemento” targeting per raggiungere il tumore.
A tal fine, dimensione, forma e carica delle nanoparticelle sono ottimizzate durante la sintesi per migliorare l’adsorbimento delle proteine presenti nei fluidi biologici e in grado di legare i recettori sulla superficie delle cellule tumorali.

Tornando alla domanda iniziale La Nanomedicina ha mantenuto la sua promessa?”, abbiamo ora tutte le evidenze scientifiche per affermare che la nanomedicina, purtoppo, non ha mantenuto la sua promessa. Trenta anni di nanomedicina applicata alla terapia oncologica non hanno rivoluzionato il trattamento del cancro.
Tuttavia, gli insegnamenti tratti dall'attuale fallimento costituiscono ora la forza trainante per la messa a punto della prossima generazione di nano-farmaci che vede nella medicina personalizzata la sfida per il futuro.
I ricercatori sono, quindi, ancora fiduciosi sul fatto che l'applicazione della nanotecnologia in campo oncologico possa avere un impatto positivo sulle cure e sulla vita dei pazienti.

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Valentina Colapicchioni, PhD

Doctor of Philosophy in Chemical Sciences, enthusiastic for scientific communication! Research fields: Nanomedicine & Nanomaterials, Environmental Chemistry.